corna

a tavola ieri l’altro si parlava con vecchi amici attori di una collega bellissima, brava, intelligente, di successo, insomma una cretina piena di doti cornificata vita natural durante dal marito, viceversa del tutto privo di talenti.

io, lo sanno anche quinte e cantinelle, sebbene a 27 anni abbia sposato un bastardo, (il tutto si può leggere in Justine 2.0, in Conversazioni sentimentali e nel prossimo romanzo che uscirà a gennaio) io trovo da sempre odioso il senso di appartenenza e il giuramento vincolante. penso che il vecchio concetto di corna alla Vitaliano Brancati, in una società dove esse si praticano quotidianamente, e con orgoglio, per lo più attraverso app e social, sia inappropriato e ridicolo.

ma se non si educano le future generazioni all’autonomia, al rispetto di sé e quindi dell’altro, all’idea che una unione non è possesso ma collaborazione, non è appartenenza ma sostegno e che l’amore non è eterno, che non è per sempre, avremo ventenni che cantano banalità come “Io sono tua”,  best seller fuorvianti che raccontano miseri sotterfugi e lacrime di umiliazione, e donne ammazzate ogni giorno.

lasciamo l’enfasi della passione a chi sa trattarla con riguardo. noi proviamo a guardarci dentro, impariamo a vederci e a distinguere l’amore dall’orgoglio. perché se amassimo sul serio, vorremmo soltanto la felicità dell’altro.

qui Pioggia Dorata

qui l’ultimo mio romanzo uscito per Castelvecchi

 

 

contratti d’amore o di governo

ci sono gli uomini che fanno i preziosi, che non si concedono, che mettono paletti e dettano regole prima, ancora prima del primo appuntamento, forse prima ancora di aver incontrato un partner. uomini (anche donne sia detto, benché io parli di ciò che conosco) che non vogliono assumersi il rischio del fallimento, o dello scontro, o della noia. o che semplicemente vogliono sentirsi liberi di lasciarci (chiudere, interrompere, finirla) e dire: ma io te l’avevo detto che non sono fatto per una storia seria.

i paletti relazionali possono essere piantati tramite lettera (email, messaggi), o  trattati davanti a una pizza, in attesa che finisca la pubblicità prima del film, o in giro per vetrine nella località turistica. lui fa l’elenco e lei spunta, ingoia rospi, impallidisce, consapevole di non aver mai preteso contratti o garanzie da nessuno: perché la passione, l’attrazione, non sempre finisce in unione d’intenti, in affetto smisurato, in desiderio di tenersi a vita con le dita allacciate, di essere pelle e voce l’uno per l’altra.

possono essere anche emissari e consiglieri i latori del contratto di alleanza. gente che conosce bene il soggetto e ne fa le veci con la nuova fiamma un po’ credulona: sai, l’amico mio è sensibile, non vuole storie ma soltanto per non ferirti.

la relazione con indecisi del genere, vigliacchi, dura sempre poco. perché chi pretende contratti, che siano d’amore o di governo, è su quei contratti che ha già scritto la nostra fine.

qui Pioggia Dorata

qui il mio ultimo romanzo, edito da Castelvecchi

l’uomo chianca

è bello.  un cinquanta sessantenne che ha assolto ai propri doveri familiari giovanissimo, liberandosi rapidamente dalle incombenze di uomo fertile e lasciando in diverse città almeno due mogli e numerosi figli. talvolta ce li ha ancora tutti in casa, ma li considera soltanto rumorose appendici che mette a tacere con un paio di viaggi all’estero e l’ultimo IPhone; spesso è lui che occupa il territorio mogliesco, ma soltanto perché, da artista (scrittore, attore, musicista, regista), non potrebbe mai vivere con il proprio stipendio. lei lo ama ancora e lo tollera, però lo controlla.

è bello, l’uomo chianca. brizzolato e abbronzato. misterioso e introverso. su FB posta poco, in chat, invece, è sempre collegato. risponde con garbo a tutte ma preferisce dialogare con i maschi, colleghi, amici, fratelli: la menopausa non è appannaggio solo delle donne, è seccante farsi nuove amiche, prenotare il ristorante, l’albergo, rifare per l’ennesima volta il solito percorso: corte, richiesta, orgasmo (sempre più lento ad arrivare).

si sorprende per l’interesse che suscita nelle giovani professioniste come nelle affermate manager. sta lì, immobile in un account non troppo movimentato, in una icona sempre uguale, e ottiene consensi per un nonnulla, tramonto banale o gattino. è il potenziale che è in lui ad affascinare, la possibilità che un giorno si muova, parli e dimostri di avere un cuore. l’uomo chianca è lento a capire, lo conosci che hai appena tagliato i capelli cortissimi, ti rivolge la parola che ce li hai lunghi al sedere. se anche gli inviassi un paio di slip sexissimi e usati, chiamerebbe la polizia postale per fare un reclamo.

(chianca o anche chiancone: tipica pietra bianca, liscia e pesantissima, usata per le pavimentazioni di alcuni territori del sud)

(qui il mio ultimo romanzo edito Castelvecchi)

A darmi il via fu l’amore

così è scritto sul frontespizio del mio ultimo romanzo. è una frase di Sylvia Plath, poetessa prima, suicida poi. ed io non sono stata onesta, l’altro giorno, con il mio interlocutore Francesco e i lettori che mi stavano ascoltando. ho dribblato sulla domanda in questione: cosa fu a darti il via?

in definitiva scrivo anch’io la stessa storia da anni, cerco anch’io la soluzione alla mia infanzia felice, all’adolescenza inquieta. lessi La campana di vetro che avevo quattordici anni, fu la mia insegnante di lettere del ginnasio a consigliarmelo, vista la mia inclinazione alla tragedia. un paio di settimane dopo fuggii di casa. a darmi il via, fu l’amore per il teatro.

e fu per amore che rinunciai alle uscite pomeridiane con le amiche, per restare su Racine, Moliere, Pirandello e Wedekind. per amore ho viaggiato poi, e soltanto per quello, mai per conoscere terre lontane ma per seguire qualcuno. e sono finita in Russia, Indonesia, Giappone. ho girato il mondo alla ricerca dell’amore, quasi sempre un’illusione, un risveglio doloroso, una sconfitta capace di rendermi più forte. è stato per amore che ho dato carta bianca all’uomo in grado di distruggere la mia autostima. ed è stato infine per amore che sono rinata.

qui il mio romanzo edito Castelvecchi.

se ti sopporto non è amore

una ragazza, ieri, su twitter, tale Lara, Nina, Viola, insomma una di quelle bellezze nascoste dietro foto e nickname, e che la sa lunga sicuramente più di me, ha scritto: che cosa si deve sopportare in nome dell’amore? ed io, che come spesso accade ragiono su certi quesiti, ho risposto, più a me che a voi: niente, non sopporti niente perché se sopporti non è amore. e su questo che per me è un principio basilare, ho anche scritto Conversazioni sentimentali in metropolitana (in uscita dopo l’estate per Castelvecchi),  ma anche Pioggia Dorata e Justine 2.0.

ho sopportato megalomania, corna e botte. il risultato è stato trovarmi con il culo per terra, senza lavoro, casa, senza figli, e nemmeno il beneficio degli alimenti. c’è chi sopporta in nome della tranquillità famigliare, commenta Brunella sotto il mio post su FB, chi come me ha sopportato perché manipolata; chi lo fa perché “meglio con lui che sola”, come aggiunge giustamente Dirce, perché c’è il mutuo da pagare, per pura pigrizia.

un’altra amica, (ma questo post è unisex), afferma di sopportare le differenze dell’altro per accrescersi chiamandole però difetti, perché la sopportazione per amore determina forza, scrive. ma io credo che sotto lo sguardo caldo dell’amore, il diverso da me mi arricchisca e basta, seppure nella distanza, e non considero quindi un difetto la sua diversità, né devo perciò sopportarla.

è questione di termini, di sfumature, credo, di allontanarci a passo svelto dall’iconografia cattolica nella quale, tra oro e rosso cardinale, si annida l’idea dell’amore come sacrificio supremo. forse è così l’amore materno, che conduce madri a farsi derubare e picchiare perché il fanciullo trentenne abbia il cellulare di ultima generazione, auto rombante e jeans di marca, perché d’altra parte Gesù era maschio, e pure barbuto, e per lo più assente, e amante delle puttane, ma non credo possa più essere così tra due adulti. perché sopportazione fa sempre coppia con dolore.