il grembiule blu

ricordare è un dovere. va detto e ripetuto che negli anni ’50 e ’60 la tivvù andava tra la gente, ma che la gente non andava in tivvù e che, benché Romain Gary avesse previsto la smania di protagonismo dei senza talento, io non riesco proprio a reggerlo il medico ospite in trasmissione che sbaglia otto congiuntivi su nove pur leggendo, e la professionista che in radio usa il “piuttosto che” in luogo della “o” disgiuntiva.  e non è soltanto amore per il passato, lo stesso che mia nonna e la mia bisnonna provavano per il loro tempo, che beninteso a me non dava noia, ma che anzi accoglievo come un dono. questa si chiama memoria, e ci serve per capire che certe cose, forse, ci riportano tragicamente indietro.

noi alle elementari usavamo il grembiule blu. il primo giorno di scuola le mamme prendevano appunti: colletto bianco e fiocco bianco per le bambine, colletto bianco e fiocco blu per i bambini. da una parte una divisione sessista oggi impensabile, dall’altra un livellamento a un unico ruolo, quello di studenti. nella mia classe c’erano i due gemelli figli di braccianti che raggiungevano la scuola a piedi, c’era la figlia del gioielliere, il figlio del neurologo e quello dell’avvocato.

era la scuola pubblica post ’68, nessun insegnante di sostegno, ma l’usanza che il più bravo sedesse al banco con chi aveva maggiori difficoltà, affinché lo aiutasse a tenere il segno sul libro, a stare al passo col dettato, a non soffrire delle lacune ereditate, a non restare indietro. già non c’era più l’obbligo a essere destrorsi. permaneva, certo, l’usanza di recitare il Padre Nostro cui, però, gli studenti protestanti erano esonerati e senza clamore, e di cantare l’Inno di Mameli. ma di amore per la Patria non è mai morto nessuno, se non erro.

anche alle feste private erano tutti inclusi, ricchi e poveri, ceti abbienti e meno abbienti, per dirla come la dirigente scolastica della scuola sulla Trionfale.  c’era l’usanza di fare regali collettivi, e chi non poteva offrire che 100 lire firmava il biglietto di auguri assieme a chi ne aveva date 2.000. negli anni ’70 esisteva  una cosa chiamata “ascensore sociale”.

tra pochi giorni uscirà il mio quarto romanzo “Io e il Minotauro” edito da GiaZira Scritture.

qui il mio sito. Interviste, recensioni e foto. 

io e Ella

c’era la lira. ero appena tornata da due settimane di vacanza sul Monte Bianco. la portò nella casa di via Leonina una delle scopate del mio primo marito, Valentina. avevo Nerina che ci aveva seguiti dalla campagna, mi bastava. ma adesso l’imbecille voleva un’altra gatta. non sapevo ancora che quando gli uomini parlano sempre della nuova stagista, e l’assecondano in tutto, è perché se la trombano, o vogliono farlo. quindi dovetti prendere la piccola.

aveva polmonite e rinite. era stata malmenata, le avevano tagliato i baffi e l’avevano stuprata con degli oggetti. una cosa terrificante. e lì per lì che pisciasse ovunque mi parve anche tollerabile e normale. in tre giorni, piccola com’era, veramente minuscola, distrusse la stanza degli ospiti. gettammo materasso e divano.

presto si rivelò impossibile da gestire. a nulla servirono insegnamenti dati con affetto, consulenti psicologici, controlli e cure. le passò la polmonite. la rinite no. il veterinario disse che non sarebbe vissuta a lungo, massimo 3 o 4 anni. le davo vitamine, Fiori di Bach e rimedi omeopatici. la tenevo sempre addosso nonostante io sia anaffettiva e proprio perciò amante dei gatti. si può dire sia stata attaccata a me come un arto. sollevò il pavimento di legno. i divani erano coperti da incerate che puntualmente distruggeva. usai repellenti, qualsiasi cosa. tutti (anche le amanti del mio ex) mi dicevano: ma basta, portala in campagna, liberatene, come fai a vivere con una gatta che ti fa la pipì sui piedi in piena notte, ti sta distruggendo casa.

ma non se ne parlava. sono nata con una tara, sento parlare anche gli oggetti, tutto si appella al mio buon cuore, tutto si riempie di umanità e di buddhista compassione quando le cose e gli animali hanno a che fare con me. è perciò che ho amato tanti uomini sbagliati, manipolatori e megalomani: perché mi facevano pena, perché sapevo che nessuna li avrebbe amati come me. e forse guariti. ogni ospite entrasse in casa vedeva Ella e se ne innamorava. è una gattina di taglia minuta dal musetto schiacciato, grigia con tre zampette bianche, come avesse dimenticato un guantino per la fretta di raggiungermi.

mi ha salvato la vita una volta. avevo un blocco digestivo e le labbra viola. non avevo la forza di reagire. lei si mise sul mio stomaco e iniziò a fare la pasta fino a sbloccare la digestione.

mi ha seguita in via Merulana,  dove abitai da sola dopo il divorzio e scrissi Justine 2.0, romanzo nel quale lei era la piccola Yin. poi venne a Marina di San Nicola, al mare, ora qui sul lago. nulla è cambiato in 22 anni. sono ovviamente affetta da coccigite a forza di tenerla sulla sedia da lavoro dove lei vuole stare. lavo per terra ogni giorno e perciò mi è venuta l’artite della casalinga: per fortuna è abitudinaria e la fa sempre negli stessi posti. ho rinunciato a molti viaggi per lei. per fortuna il mio splendido marito ha la mia stessa malattia del cuore e non ci ha messe alla porta, anzi, ha curato Ella meglio di come l’avrei fatto io. e gliene sono grata. è stata bene fino a tre giorni fa, nonostante il recente ictus dal quale si è ripresa rapidamente. adesso è fuori in giardino che beve acqua dal papiro e cerca il sole. è affetta da demenza senile, mi pare ovvio, perciò urla. non è distesa in una cuccia di dolore.

domani tutto finirà. e mi perdonino gli amanti dei gatti se per problemi logistici e affettivi veramente complicati non l’ho ancora portata ad attraversare il ponte che la condurrà nel paradiso dei gatti, nonostante tutto.

contratti d’amore o di governo

ci sono gli uomini che fanno i preziosi, che non si concedono, che mettono paletti e dettano regole prima, ancora prima del primo appuntamento, forse prima ancora di aver incontrato un partner. uomini (anche donne sia detto, benché io parli di ciò che conosco) che non vogliono assumersi il rischio del fallimento, o dello scontro, o della noia. o che semplicemente vogliono sentirsi liberi di lasciarci (chiudere, interrompere, finirla) e dire: ma io te l’avevo detto che non sono fatto per una storia seria.

i paletti relazionali possono essere piantati tramite lettera (email, messaggi), o  trattati davanti a una pizza, in attesa che finisca la pubblicità prima del film, o in giro per vetrine nella località turistica. lui fa l’elenco e lei spunta, ingoia rospi, impallidisce, consapevole di non aver mai preteso contratti o garanzie da nessuno: perché la passione, l’attrazione, non sempre finisce in unione d’intenti, in affetto smisurato, in desiderio di tenersi a vita con le dita allacciate, di essere pelle e voce l’uno per l’altra.

possono essere anche emissari e consiglieri i latori del contratto di alleanza. gente che conosce bene il soggetto e ne fa le veci con la nuova fiamma un po’ credulona: sai, l’amico mio è sensibile, non vuole storie ma soltanto per non ferirti.

la relazione con indecisi del genere, vigliacchi, dura sempre poco. perché chi pretende contratti, che siano d’amore o di governo, è su quei contratti che ha già scritto la nostra fine.

qui Pioggia Dorata

qui il mio ultimo romanzo, edito da Castelvecchi

Amazzonia in fiamme

mentre sulle TV italiane e sui social i commentatori (pagati e non) “narrano” la crisi di Governo ferragostana (se non usano il verbo caro agli editori gli prende una sincope), il polmone del mondo, l’Amazzonia, va in fiamme. poche settimane fa il presidente del Brasile, Bolsonaro, del tutto estraneo a un idea di società compatibile con l’ecosistema, aveva dichiarato di poter fare della foresta quello che più gli sarebbe parso, poco gl’importava fosse patrimonio dell’umanità.

quindi oggi va a fuoco così come è andata a fuoco una foresta in Antartide, così come si sono irrimediabilmente sciolti i ghiacciai. e si rimpallano le colpe mentre milioni di animali muoiono divorati dalle fiamme.

per i social va in giro il mantra (anche questo è un termine carissimo ai nostri politologi) che se si è parlato tanto dell’incendio a Notre Dame, poco parlare si fa di enorme disastro di oggi in Amazzonia. insomma, come dire che la morte di un novantenne è meno dolorosa di quella di un sessantenne. i soliti idioti. e nessuno propone soluzioni.

cerchiamo, almeno oggi, di mettere l’hashtag giusto.

#Amazzonia

 

 

Manzoni

ogni tanto, sulle pagine FB di amanti della letteratura (o presunti tali) e sugli altri social, qualcuno scrive quanto Manzoni gli faccia schifo, lo annoi, lo trovi razzista perché non c’è un nero uno nei Promessi sposi; omofobo, perché non ci sono gay; certamente baciapile, moralista e perbenista e nonostante Don Abbondio.

ve lo giuro, c’è chi scrive certi obbrobri e la passa liscia.

bene. ora io comprendo che avere la possibilità di digitare qualsivoglia minchiata (minchiata: tutto ciò che non si basa su una lettura critica del testo; giudizio basato sul semplice gusto personale, ossia campato in aria, che ha lo stesso peso di quello del mio salumaio sui film di Lars Von Trier),  ecco, capisco che sfogare finalmente il vostro odio verso lo scomparso poeta, vi faccia dire un mucchio di sciocchezze che non pensate nemmeno e semplicemente per contraddire l’interlocutore, o perché, fatto salvo il tedio provato da adolescenti, non ricordate più un cazzo del testo in questione, ma arrivare a scrivere che Manzoni è uno sborone perché vuol dimostrare al pubblico di essere un dotto… ecco, affermare che andrebbe “tagliato” e farlo col gusto di uno che trascorre su twitter la metà della propria vita, be’.

siete così presi dall’anti meritocratico “uno vale uno”, così spalleggiati dal populista anti pensiero e così aggressivi verso chiunque studi, che non vi vergognate neppure un po’ di promuovere l’anticultura fascista pur dichiarandovi di sinistra. perché così si chiama chi, anziché porsi il dubbio di essere indietro con gli studi, anziché cercare di  capire le ragioni per cui dei coglioni (tanti) scrivono ancor oggi saggi su Manzoni o come mai si organizzino gruppi di lettura su I Promessi sposi, abbatte l’accetta del proprio giudizio striminzito su qualsiasi cosa sia la nostra storia comune.

ma credo che ciò faccia parte del disegno di impoverimento culturale verso cui stiamo precipitando. e se vi sentite offesi per le mie parole, perché sapete che son rivolte a voi, sappiate anche che io mi sono sentita offesa dalle vostre, giacché “personalmente”, ma seguita da una nutrita schiera di esperti, trovo I Promessi sposi un testo infinito, un romanzo esemplare sul nostro valore e sulla nostra vile italianità.

potete affermare che è un testo che vi fa schifo? certo, siete liberi anche di urlarlo, ma poiché è un giudizio di pancia, non supportato da nulla, non oggettivo, poiché “quella che chiamiamo opera d’arte o opera creativa è la creazione dell’individuo-artista; è cioè il prodotto di un individuo che ha vissuto e vive nel suo tempo e nel suo spazio, che è soggetto di storia e oggetto della storia”, il vostro giudizio resterà del tutto ininfluente, per me lettera morta.

perché certamente una mosca amerà la merda.

ecco cosa penso del vostro giudizio soggettivo.

qui il mio trasgressivo Pioggia Dorata

qui Conversazioni sentimentali in Metropolitana (Castelvecchi)