fuggii di casa la prima volta che avevo quattordici anni. portavo lunghi capelli e l’espressione di chi sa fare da sé.
era iniziato il secondo quadrimestre di un ginnasio frequentato a fatica e a tutti i costi, contrariamente a quanto suggerito dai miei, che mi vedevano meglio integrata in un liceo artistico.
ma io non potevo essere una da liceo artistico, no, protestai con quanto fiato avevo in gola e nonostante i voti ben chiari sulla pagella. non ero la ragazzina priva di volontà e superficiale di cui parlavano in sala da pranzo, tra adulti, con voce afflitta. io volevo superare i miei limiti, non adagiarmi sulle mie qualità creative.
invece quell’anno fu un disastro.
così quella notte di marzo bevvi un bel po’ di caffè e attraverso la campagna, all’alba, raggiunsi la stazione ferroviaria di Bari. fu la volta che finii a Roma, sulle ginocchia di Chet Baker, al Music Inn.
non ho mai capito i gruppi, le comitive, le amiche che vanno assieme in discoteca, a scuola, dal dentista. non ho mai avuto stuoli di amiche al seguito. la maggior parte di loro mi ha fottuto, sarebbe stato lo stesso anche fossero state uomini; sono condizioni, quelle della buona fede e dell’ingenuità, in cui l’uomo, o la donna, si fa ladro, atti malvagi che non resteranno impuniti ma di cui ho già domandato clemenza.
e comunque la solitudine è la condizione migliore per dialogare con gli dei, almeno stando a Victor Hugo, uomo serio seppure visionario.
forse è perché amo la solitudine che non ho mai passato un giorno della mia vita senza essere legata a un uomo.
la solitudine è una compagna affettuosa, un tra me e me meritato, una condizione scelta che diventa con gli anni necessità. anche quando bevevo pesante non lo facevo mai in compagnia, detesto dare agli altri incombenze che non meritano, come ascoltare lamentazioni di una sbronza prevedibilmente triste.
non sopporto il rischio di confessare a qualcuno i miei peccati.