sovrastrutture nonnesche

avrò avuto dodici anni. ero a  Matera con amici e parenti per un debutto teatrale. Paolo (pace all’anima sua), armatore quarantenne e amico un po’ amante di una mia zia, non faceva che tenermi sulle ginocchia e spupazzarmi. mentre il sole si esibiva sui Sassi in un tramonto da lacrime, Paolo mi disse che avrei potuto interpretare la vergine Cécile di de Laclos tanto ero bella. io non sapevo chi fosse de Laclos ma arrossii comunque: ricorda che il  fascino è un dono, è un’arma mille volte più potente della bellezza, usalo con parsimonia, nascondilo agli invidiosi, negalo agli egoisti, regalalo a chi lo può apprezzare, vendilo a chi lo può pagare. così ho sempre fatto, e a parte la parentesi di un matrimonio di convenienza, da parte sua, la ricca ero io, ho avuto soltanto esperienza positive, amanti degni di questo nome.

quindi vi domando: perché crearvi giustificazioni? e per giustificazioni intendo le didascalie nelle quali chiedete venia per aver azzardato tanto. ora, vi selfate mezze nude e vi esponete al giudizio di milioni di sconosciuti perché vi piacete e volete piacere. non dovete giustificarvi. mostrarsi è un atto di generosità. se leggeste ogni tanto qualche biografia di seduttrici, imparereste che non c’è nulla di più ridicolo di chi si toglie gli abiti giustificandosi. un po’ come chi scrive storie erotiche e si trova in imbarazzo a usare i termini propri dell’eros. ce la potete fare. nel frattempo, se volete fare le disinibite, toglietevi di dosso le sovrastrutture cattoliche e nonnesche e siate coerenti. oppure non fotografatevi senza veli.

qui Pioggia Dorata

qui il mio ultimo romanzo Castelvecchi

 

CHŪGI

un breve stralcio da Pioggia Dorata, GiaZira Scritture

L’uomo seduto sul divano alla luce di un tardo pomeriggio di primavera le raccontava una storia. Si trattava di un fatto realmente accaduto in Giappone, aveva assicurato prima di cominciare e prima ancora di adagiarsi sul divano con eleganza un po’ affettata.

«Un Master aveva ordinato all’amante di aspettarlo fino al suo rientro, nuda e immobile al centro esatto del piccolo giardino. Sai… – s’interruppe – i giapponesi hanno una cura maniacale per i particolari e la creazione delle simmetrie». Riprese. «Aveva ricevuto una chiamata dall’ufficio, doveva uscire per un imprevisto ma sarebbe rientrato nel giro di due ore, l’aveva rassicurata carezzando dall’alto la fronte della donna che, come con un cane, stava ai suoi piedi. Poi ribadì che si aspettava di trovarla esattamente così come l’aveva lasciata: esattamente, scandì, esattamente dove ti ho lasciata. La submissive dagli occhi a mandorla chinò la testa come si conveniva. Si spogliò mostrando remissività», sottolineò l’uomo sul divano, e spostò lo sguardo sulla parete spoglia alla ricerca dello sguardo della giapponese, confrontandolo poi con quello della donna che, in piedi sulla porta, lo guardava con espressione purtroppo neutra.

«Dopo avergli leccato le suole delle scarpe – ricominciò con evidente rammarico – la giapponese andò a sistemarsi in giardino, proprio dove lui le indicava tendendo il braccio come una freccia, sotto il mandorlo appena fiorito, accanto al filiforme muretto di pietra, di fronte alla fontana zampillante e alla tartaruga nera rivolta a nord». L’uomo si prese una pausa e si compiacque per lo sforzo creativo appena profuso. Poi cercò ammirazione negli occhi della sua unica spettatrice, che invece li aveva abbassati in fretta, e ricominciò. «Benché facesse freddo la donna non si ribellò. Nonostante sarebbe stata esposta agli sguardi di passanti e vicini non pensò nemmeno per un attimo di contraddirlo», e di nuovo guardò la sua donna che ancora senza ombra d’incredulità nello sguardo, o di apprensione, si teneva stretta tra le braccia conserte ed era bella da togliere il fiato. Inspirò.
Riprese.
«Così il Master nipponico andò in garage e quando ne uscì vide la sua donna sparire nel riquadro dello specchietto retrovisore. Un minuscolo corpo armonioso all’interno della perfezione del creato». Rise tra sé. «In ufficio partecipò a una riunione e poi a un’altra. Infine, convocato dal vice direttore, seppe che all’alba sarebbe dovuto partire per Kyoto, causa un bug di sistema di un’azienda consociata. Un’emergenza cui soltanto lui poteva rimediare. Una richiesta che non pensò per un secondo di contraddire. Una mancanza di rispetto che mai avrebbe pensato di praticare». Scrollò il capo sorridendo di nuovo. Si compiacque ancora per quei guizzi poetici.
«Erano le due del mattino quando il giapponese si appisolò alla scrivania. All’alba era in aeroporto da dove provò invano a chiamare l’amante. Doveva avvertirla! Così chiamò e richiamò, agganciato a un telefono pubblico – i cellulari ancora non esistevano – sperando che lei decidesse di trasgredire all’ordine. La donna in ginocchio in giardino sentiva il telefono squillare senza sosta oltre la sottile parete di carta di riso, ma nemmeno una volta pensò di alzarsi da lì per andare a rispondere. Non era la prima volta che i loro giochi si protraevano per giorni, fino allo stremo, allo strazio assoluto, al sacrificio abissale. Il tecnico era partito dalla capitale che c’erano ancora i mandorli in fiore», disse dopo averla scrutata di nuovo, la submissive nostrana, ancora immobile, ancora calmissima.

«Così, il tecnico scoprì che a Kyoto si sarebbe dovuto trattenere più del dovuto. Un caso, niente di più che un dannato caso!», mise a postilla mentre si grattava il mento guardando nel vuoto, in cerca del filo da riprendere. «Passarono alcune settimane che divennero mesi. L’ingaggio prevedeva un lavoro di ripristino dati e la formazione di nuovi tecnici. Ogni giorno l’uomo chiamava l’amante che però continuava a non rispondere. Pensò volesse fargliela pagare, che forse era stufa e che, stavolta, in effetti, aveva esagerato. Infine, mettendo da parte ansia e senso di colpa, concetto credo sconosciuto ai giapponesi non di fede cattolica, pensò che, tra l’azienda e lei, dovesse più lealtà alla prima e che perciò, comunque fosse andata, aveva fatto la cosa giusta.
Infine, successe una domenica di gennaio durante una cerimonia al Tempio, l’impiegato della multinazionale incontrò una lontana parente che gli era stata destinata in sposa dalla famiglia. In Giappone si fa ancora così», precisò per prevenire qualunque domanda della propria submisive che stava ancora immobile sulla soglia, le braccia ancora incrociate sul petto, lo sguardo ancora imparziale e freddo.

«Per il rispetto e la lealtà che i giapponesi nutrono per le tradizioni e lo Stato, l’uomo si piegò al volere della famiglia fermandosi nella città delle campane il tempo utile ai preparativi delle nozze. E più si avvicinava quel giorno, più la sposa gli stava accanto, più diminuivano i colpi di telefono all’amante, ridotti ormai a rari squilli nemmeno troppo insistenti. Quando lui tornò finalmente a Tokyo la neve si stava sciogliendo.
La sua amante fu ritrovata in giardino, ancora in ginocchio, le mani giunte in preghiera così come lui l’aveva lasciata in primavera.
Ma il fatto bizzarro, l’aspetto spaventoso di tutta questa vicenda – s’infervorò l’uomo sul divano – fu che la denuncia alla polizia arrivò da una vicina di casa della submissive il giorno stesso in cui lui atterrò a Tokyo! Forse nel momento stesso in cui quello aveva attraversato il Gate!».
E ci mise talmente tanta enfasi, da doversi alzare dal divano per poi risedersi, una “ola” di entusiasmo del proprio sentimento più intimo.

«Si chiama Chūgi», aggiunse portando la voce fino in cucina dove la sua amante si era spostata, evidentemente per nascondere una chiara espressione di condanna mista a disgusto. Lui lo sapeva. Lei non era pronta, lei non capiva. Una provinciale del cazzo, una ragazza creativa ma un po’ stupida. «È un concetto, la lealtà… è un concetto che invece tu non hai chiaro! – disse infatti – eh no che non ce l’hai chiaro!», aggiunse mentre stirava con i palmi delle mani la piega dei pantaloni e ammirava la lucentezza delle proprie scarpe.

«Chūgi! Ricordatelo, capra!», concluse poi con un sorriso soddisfatto.

qui il mio ultimo romanzo Castelvecchi

qui i miei racconti erotici GiaZira Scritture

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l’altro giorno in TV ho visto l’intervista a una scrittrice erotica, che parlava e si muoveva da scrittrice erotica e vestiva da scrittrice erotica. certo che starei bene abbigliata da fighetta, e ho anche dei capi interessanti nell’armadio, talvolta mi metto anch’io in tiro anche perché ho il fisico del ruolo. perché io non lo faccio?, perché non sono una scrittrice erotica.

la scrittura di genere rispetta strutture e stilemi. io, no: egli mi mostrò il suo volto rorido di sudore, era bellissimo e furente, aveva la fronte aggrottata, gli occhi azzurri mi raccontavano tutta la passione che fin lì aveva taciuto, il mio tremore impediva il mio passo. Infine mi trasse a sé con forza, io mi abbandonai sul suo petto: amami, sussurrai. i romanzi di questo genere hanno una protagonista fichissima che si presenta quasi subito in reggicalze, che ama un uomo splendido (con tutti gli attributi a posto), che però non può riamarla a causa di un antagonista: un altro uomo, il lavoro, una moglie, una malattia. le pagine, generalmente tante, si susseguono tra descrizioni pedisseque di splendidi appartamenti, sospiri e reggicalze, culotte e baci appassionati, teste che si abbassano tra le lenzuola e parole sublimi. io sono diretta, cruda, urticante. i miei eroi sono impotenti, egocentrici, impauriti, stronzi.

Pioggia Dorata (sei storie amare), Giazira Scritture, vuol dimostrare quanto una pratica esecrabile come il pissing sia in uso tra tanti impeccabili signori/e, e sia di gran lunga meno lurida della menzogna perpetrata all’interno di un matrimonio almeno in apparenza stabile; che la rimozione del suicidio di una madre ci ferisca così profondamente da diventare dominazione a ogni costo e infelicità; che perdere una sorella a causa dei festeggiamenti per la decima ristampa dell’amico romanziere dei genitori, può condurre Lea a non voler più leggere che il volantino della palestra di fitness; che un padre violento ci condurrà inevitabilmente alla coazione a ripetere, alla ricerca di uomini come lui che ne giustifichino la malvagità.

io scrivo per cercare complici.

 

ma… è proprio quella Pioggia Dorata?

fa così l’italiano medio. mi si avvicina, stringe gli occhietti, apre la boccuccia e domanda: ma è proprio quella Pioggia Dorata? quella quella?
beh, sì, certo, rispondo io. la Pioggia Dorata di Zeus su Danae, ritratta anche da Tiziano, il pittore che guarda caso quel mattino si trovava a passare di lì proprio mentre il satrapo la faceva addosso alla bella amante. ed è la stessa Pioggia Dorata che il poeta Gabriele D’Annunzio domandò alla divina attrice, Eleonora Duse, di cui era follemente innamorato: Prego, mia amata, vogliatemi bagnare con la vostra Pioggia, le scrisse. e lei, che si trovava a teatro a Londra, gli rispose: Volentieri, se volete potrei inviarvene subito una ampolla. No, rifiutò lui: verrò io da voi, il poeta si abbevera alla fonte.

ma non è il “pissing“, pratica raffinata e tra l’altro ben pagata anche da Trump, il perno attorno cui ruotano le mie sei storie, perché il vero scandalo, per una libertina come me, non è in questo primitivo e antichissimo gioco erotico, ma nei tradimenti perpetrati in anni da B. a danno della sua bella Francesca, l’omosessualità non riconosciuta dall’impiegato di banca, la superficialità di una ragazza che non vede oltre il touch screen del proprio cellulare; lo scandalo è fingere di non voler innamorarsi; oscene sono le menzogne che ci raccontiamo per non rompere l’equilibrio di un matrimonio da anni senza sesso.

ma sì, ma sì, avrei fatto meglio ad ascoltare il mio amico anglo cubano, Ted, che quando gli riferii del titolo da dare alla raccolta di racconti che gli avevo inviato, urlò: ma sei pazza!, sei in Italia!, c’è il Papa, l’impiegato, l’ignoranza. stessa cosa l’amico recensore in questo brano qui.
ma allora a cosa vi atteggiate?
perché vi fingete giramondo, aperti, moderni, se nemmeno vi siete fatti mai fare la pipì addosso da qualcuno, restituendogli magari il favore?

qui l’ebook

c’è Master e master

cosa significa, intanto, essere Master?, sicuramente oggi è soltanto un nickname sputtanato sui social,  ma anticamente, quando le 50 sfumature non avevano svelato alla Massa che tutto appiattisce i segreti dell’antica arte di procurar piacere attraverso il dolore, e la famosa Ufficio Stampa inglese non ci aveva ancora rovinato la piazza svelando il segreto del sadomaso a chi fa solo business, prima, insomma, si trattava di vecchio gioco per far trarre  godimento a un adulto dalla tortura di un altro adulto consenziente.

e pensare che c’era un tempo in cui, affermare di godere nel prenderle faceva inorridire i più, non soltanto chi pretende di applicare la propria morale ai grandi artisti del passato. e a me già chi si dice artista, pazzo, creativo, master o slave (normalmente quella che le prende e sta in coppia con il master), fa l’impressione che tutto sia fuorché ciò che va pubblicizzando. e poi sono nata e cresciuta tra persone che prima di dirle, le cose, le facevano; i Master che ho conosciuto, tre, non ce l’avevano scritto da nessuna parte che erano Master. non erano strafichi maniaci dell’ordine come certi film di Hollywood li rappresentano, non indossavano tute in latex. erano uomini sensibili e un po’ border line. sicuramente narcisisti.

il primo era l’Amministratore Delegato di una  S.p.A. che a vederlo non l’avrei detto mai. non che fosse un Master, ma che fosse un milionario, perché tante volte il vero ricco ha le pezze al culo e il vero Master lo sguardo mansueto. l’altro era un mercante d’arte che somigliava a Montgomery Clift e fumava il sigaro. mi accorsi che con lui avrei fatto la fine del sorcio per la seconda volta in vita mia e così fuggii, prima che potessero arrivargli dall’occidente le pillole di Viagra che avevo ordinato giorni prima. il terzo lo conobbi secoli fa e non mi parla più da quando ne feci il protagonista del mio romanzo di debutto, grazie a al cielo non l’ultimo: “Lei si voltò e lui la squadrò a lungo, tenendo la testa reclinata da un lato come per valutarne con precisione altezza, peso e carattere. E quello sguardo parve durare un’eternità. il rosso intenso delle sue scarpe da rapper, i jeans -troppo larghi, ahilei, per poter giudicare- e infine le sue mani, le dissero un’enormità di cose” (Justine 2.0 INK Edizioni http://www.inkedizioni.com/justine-2-0/)

tutto questo per dire che magari, coltivando le proprie passioni sessuali senza pubblicizzarle, si fa meno fatica a rendersi credibili.

(p.s. sono felicemente sposata e ormai votata alla santità. no DM, grazie)